Daniela Besana

Specialista di High Performance Computing presso Microsoft

Cosa l’ha portata a laurearsi in fisica? E poi a completare il suo percorso di studi con un MBA alla Warwick Business School?

Sono sempre stata incuriosita dalla natura e ho adorato la matematica, che della natura è il linguaggio, e la fisica era, tra tutte le scienze, quella in grado di investigare la natura al massimo livello di profondità, utilizzando la matematica più di tutte le altre.
Amavo anche la letteratura e la storia, ma ho pensato che, anche senza una laurea in lettere, avrei comunque potuto apprezzare un buon libro, mentre con molta più difficoltà sarei diventata autodidatta in fisica.
I successivi studi di business sono stati frutto di un percorso di crescita aziendale e di una successiva volontà di allargare il mio orizzonte da quello delle multinazionali, dove ho sempre lavorato, a quello delle startup.

Di cosa si occupa in Microsoft?

Di far conoscere ai nostri clienti i benefici del cloud di Microsoft per gli ambienti di simulazione, previsione, e visualizzazione, che tradizionalmente si avvalevano di grandi supercalcolatori allestiti fisicamente presso i clienti stessi, e di aiutarli poi nella migrazione in cloud di tali carichi computazionali.

Quando era piccola cosa sognava di fare da grande? E’ sempre stata portata per le materie STEM?

Diciamo che sono sempre stata molto curiosa e che, da piccola, i miei genitori mi facevano trascorrere molto tempo libero in campagna e nella natura: questo credo abbia gettato i primi semi del mio senso di meraviglia per la natura e della mia curiosità scientifica. Sicuramente poi la matematica, che è il sorprendente linguaggio della natura, mi è sempre riuscita con una certa facilità e con molto piacere: fin dalle medie, ricordo che l’esercizio della matematica mi generava una sensazione molto piacevole, per la concentrazione, l’essenzialità del pensiero e le piccole sfide che generava e per un subliminale messaggio di ottimismo che trasferiva: per quanto il problema fosse complesso, provando a guardalo da diverse prospettive, e con qualche acrobazia logica, la soluzione si trovava quasi sempre. Questo predispone all’ottimismo!
Da piccola non avevo una visione chiara di cosa in particolare avrei voluto fare da grande, ma ho sempre avuto un’idea molto chiara su un requisito che non sarebbe mai dovuto mancare nella mia professione futura: la possibilità di avere sempre qualcosa di nuovo da capire.

La scuola le ha fornito un orientamento in questo senso? La sua famiglia l’ha sostenuta nella scelta?

La famiglia mi ha solo fatto qualche domanda in stile ‘coaching’ per aiutarmi a chiarirmi da sola quale facoltà alla fine volessi scegliere. La scuola media ha avuto un ruolo determinante perché mi ha fatto incontrare un’insegnante di matematica e scienze, una biologa, che credo sia stata un vero role model: una donna molto femminile, molto intelligente, con un fortissimo carisma e con una meravigliosa luce negli occhi ogni volta che ci raccontava qualcosa di scienza. Lì ho sicuramente ricevuto il messaggio che occuparsi di scienza fosse una cosa da donne affascinanti. Al liceo scientifico purtroppo ho avuto insegnanti di matematica, fisica e scienze, paradossalmente e sfortunatamente prevalentemente mediocri, ma ormai la curiosità per la scienza e la facilità per la matematica erano così instillate, che le studiavo con passione da sola.

Ci sono barriere secondo lei che generano discriminazione nei confronti delle donne che vogliono entrare o avanzare nelle carriere scientifiche? Nel suo percorso lavorativo, ha mai incontrato difficoltà?

Personalmente non mi sono mai sentita come un animale strano. A fisica a Milano, a sensazione, credo fossimo circa il 40-50% di ragazze (forse oggi non è più così, e non so perchè): c’era anche Margherita Hack come fisica famosa, quindi nell’immaginario comune era abbastanza accettato che la fisica potesse essere anche donna.
Poi ho avuto la fortuna di essere assunta da IBM, che è un’azienda che ha fatto della ‘diversity’ uno dei suoi capisaldi culturali ed operativi principali (oggi il CEO è una donna). Avendo ricoperto ruoli a stretto contatto con i clienti, spesso mi capitava di trovare dai clienti open space di soli uomini, con solo qualche donna carina alla reception. Quindi sì, all’inizio della conversazione, ogni tanto, ma neanche spesso, mi guardavano un po’ straniti, ma poi, appena capivano che parlavo di temi di loro utilità con cognizione di causa, il fatto che fossi donna o uomo diventava per loro irrilevante.
Secondo me, dall’osservatorio molto parziale costituito da me e dalle mie amiche con carriere STEM, le barriere non sono all’ingresso, almeno per le grandi multinazionali o per le università. La vera barriera si manifesta dopo ed è invisibile: è il famoso tetto di cristallo. E, almeno per quelle due realtà che conosco più da vicino, non ho mai avuto la sensazione fosse dovuto a pregiudizio, ma piuttosto a due fattori distinti: da una parte, la diffusa difesa corporativa di rendite di posizione da parte degli uomini al potere, e, dall’altra, la messa in atto inconsapevole di comportamenti poco vincenti professionalmente, più diffusi tra le donne che tra gli uomini, quali ad esempio la scarsa capacità di costruire consapevolmente un network professionale, o il non porsi degli obiettivi, impegnandosi invece semplicemente a fondo sperando che prima o poi qualcuno se ne accorga.

A suo parere, l’Italia sta facendo abbastanza per orientare le giovani donne agli studi STEM? Cosa bisognerebbe fare per migliorare le cose?

Almeno per la mia generazione, né io né le mie amiche ci siamo sentite frenate dallo scegliere discipline STEM. Mi dicono che le cose sono cambiate, ma credo lo siano anche per i ragazzi: il mio anno a fisica a Milano eravamo 500 iscritti, adesso mi dicono che sono qualche decina. Credo che la percentuale di iscritti alle discipline STEM sia in generale diminuito negli ultimi trent’anni.
Secondo me l’Italia non ha mai fatto nulla per valorizzare la cultura scientifica, che è sempre stata presentata come antagonista ed inferiore rispetto a quella umanistica, e che invece di essa non è altro che una diversa espressione. Una formazione scientifica educa ad affrontare ed analizzare la complessità, a decomporla, a cercarne le correlazioni, le congruenze e le incongruenze. Abitua a non accontentarsi di aver approfondito e discusso, ma a cercare soluzioni e risultati tangibili.
Tramite anche semplici esperimenti, insegna che la realtà spesso è inesorabilmente molto diversa rispetto a come avremmo giurato che fosse sulla base delle nostre impressioni. La cultura scientifica poi insegna che la scienza non possiede la verità, ma solo un metodo per interrogare la realtà e trovare la migliore verità possibile fino alla prossima prova contraria.
Forse bisognerebbe trovare il modo di disseminare tanti insegnanti di matematica e scienze delle medie così strutturati ed affascinanti come lo è stata la mia: il tema è la scuola di qualità, fatta da insegnanti selezionati rigorosamente non solo sulla base di concorsi, ma anche di un serio tirocinio preliminare, e con remunerazioni adeguate alla loro funzione strategica per il paese. Forse basterebbe poco, eppure sarebbe moltissimo.

Quale consiglio si sente di dare alle ragazze che amano le materie STEM e vorrebbero intraprendere questa strada?

Assolutamente di intraprenderla! Di scegliere la facoltà STEM che più le appassiona (perché quando qualcosa appassiona davvero, lo sforzo è più lieve), ma poi di iniziare a pianificare la propria carriera professionale o accademica fin dai primi anni dell’università, senza aspettare la laurea, affidandosi poi al caso di chi le assumerà per primo: informarsi, chiedere, cercare esempi, farsi raccontare possibili trappole che spesso nessuno racconta. Ad esempio, varrebbe la pena ragionare in termini di vantaggio competitivo sostenibile anche per la propria professionalità! Voglio dire che, se sei un ingegnere e cerchi una carriera che ti fa costruire ponti, la tua competizione professionale sarà solo con ingegneri con la tua specializzazione. Se invece sei ingegnere nucleare e vai a fare il programmatore SW, è vero che, in generale, avrai una forma mentis più efficiente rispetto ad un ragazzino delle superiori che programma per passione, ma tutto il peso delle tue competenze non costituirà un serio vantaggio competitivo. Nell’evitare queste trappole e nel pianificare la propria carriera, gli uomini sono in media più bravi delle donne: quali possano poi esserne i motivi sarebbe tutto un altro capitolo da approfondire.