Eva Ratti

ASTROFISICA, FONDATRICE E MANAGER DELLA STARTUP INNOVATIVA FIND YOUR DOCTOR, PRIMA AGENZIA DEL LAVORO IN ITALIA DEDICATA AI DOTTORI DI RICERCA

Eva Ratti, dottorato in Astrofisica, è fondatrice e manager della startup innovativa Find Your Doctor, prima agenzia del lavoro in Italia specializzata nel placement e nella valorizzazione dei Dottori di Ricerca al di fuori dell’ambito accademico. Si occupa di formazione ai dottorandi, coordina team di ricerca presso le imprese e segue la promozione e lo sviluppo strategico della startup

Link al sito di Find Your Doctor: http://www.findyourdoc.org/

Qual è stato il suo percorso di studi? Come è arrivata alla laurea in astrofisica e poi a fondare una start up così promettente come Find Your Doctor?

In sintesi, potrei dire che sono arrivata alla laurea in Astrofisica inseguendo un aspettativa sbagliata ed a fondare la startup per il desiderio di trasformare le difficoltà incontrate in qualcosa di utile per gli altri.
Ho sempre avuto una fascinazione per il cielo ed il vizio di chiedermi il perché delle cose, così mi sono iscritta a fisica con l’obiettivo di specializzarmi in Astrofisica, diventare uno scienziato e studiare l’universo. Dopo la laurea triennale e specialistica, entrambe conseguite all’università di Milano-Bicocca, mi sono spostata in Olanda per svolgere un Dottorato di ricerca e sperimentare davvero la vita del ricercatore scientifico. Sfortunatamente però, dopo nove anni dedicati alla scienza mi sono resa conto che il lavoro in sé mi appassionava meno di quanto avessi sperato e che c’erano altri aspetti della mia personalità che erano importanti per me e che non stavo valorizzando: una certa sensibilità verso le persone, propensione alla comunicazione ed il desiderio di fare qualcosa che avesse un impatto sugli altri più immediato di quello che la ricerca pura ha, che si vede a distanza di decenni. Così ho deciso di ritornare in Italia e cambiare percorso professionale. Nel fare questa scelta ho scoperto quanto possa essere difficile uscire da una strada tracciata in un mondo che punta sempre di più sulla specializzazione e quanto poco fosse conosciuta la spendibilità di un background di ricerca in Italia e fuori dal mondo accademico e delle multinazioniali. Ho cominciato a ragionare sul problema ed a quel punto sono stata fortunata: ho incontrato il mio attuale socio, la cui esperienza di impresa ha incontrato la mia esperienza accademica, portando alla concezione ed alla nascita di Find Your Doctor, una startup che vuole offrire ai ricercatori che si trovano nella stessa posizione in cui sono stata io quell’aiuto che io non ho avuto. L’obiettivo è di portare a spendere il loro saper fare e la loro mentalità creativa anche al di fuori dello specifico ambito di studi, facendo qualcosa di utile per loro e per la società.

Quando era piccola cosa sognava di fare da grande? E’ sempre stata portata per le materie STEM?

Quando ero piccola, a dirla tutta, volevo fare la cantante (cosa che apprezzerei tutt’ora) ma ho cominciato ad appassionarmi del cosmo già alle elementari. Credo che mi irretirono certe serate passate guardando il cielo stellato sul mare dal terrazzo della nostra casa in Sardegna mentre la nostra vicina, che qualcosa sapeva di astronomia, chiacchierava con mio padre di cosa ci fosse lassù. Non ho mai avuto una propensione in particolare per le discipline STEM rispetto a quelle umanistiche, mi sono sempre trovata bene su entrambi i fronti. Fortunatamente nessuno mi ha mai messo paura delle materie scientifiche: da piccola vivevo la matematica come un rompicapo divertente e le scienze come una finestra sul mondo naturale. Cose comprensibili e imparabili come le altre, bastava pensarci.

La scuola le ha fornito un orientamento in questo senso? La sua famiglia l’ha sostenuta nella scelta?

Il consiglio orientativo che ricevetti alla fine della terza media fu “maturità scientifica o classica”, perciò non direi che la scuola mi sia stata particolarmente d’aiuto. Ho probabilmente ricevuto un orientamento maggiore dalla famiglia, forse un po’ atipica: pur non avendo mai voluto farmi pressione, mio padre ha sempre desiderato che seguissi un percorso scientifico e alla fine così ho fatto. I miei genitori non mi hanno mai dato l’impressione che il mio essere una ragazza fosse un limite al tipo di intelligenza che potevo esprimere. Feci il liceo scientifico, per altro imparando la matematica da due donne; alla fine ero in dubbio tra psicologia e fisica (sempre di “capire i perché” si tratta) e scelsi fisica perché le prospettive di lavoro parevano migliori.

Ci sono barriere secondo lei che generano discriminazione nei confronti delle donne che vogliono entrare o avanzare nelle carriere scientifiche? Nel suo percorso lavorativo, ha mai incontrato difficoltà?

Parto con il mondo della ricerca accademica, che io vissuto in Olanda per gli anni del dottorato e su cui mi sono confrontata con tante amiche. Nel mio settore non ho percepito barriere all’ingresso, ma i problemi nascono dopo. Le forme di comunicazione e di interazione del contesto della ricerca sono ancora molto maschili, ti pare sempre di dover sembrare super-preparato e sapiente pure alla macchinetta del caffè, come se dovessi costantemente dimostrare agli altri che sei brillante quanto e più di loro. Lo scambio ed il confronto intellettuale sono spesso vissuti come una forma di sfida, anziché una conversazione costruttiva in cui ognuno mette la sua parte per ottenere il meglio. Una ricercatrice italiana, già strutturata nell’istituto in cui io ero dottoranda, mi confidò di essersi dovuta sforzare di diventare aggressiva nonostante non fosse nella sua natura, perché nelle riunioni con i colleghi prevalentemente maschi la sua vocina non riusciva a farsi largo in mezzo a tutto quel testosterone.
Quello accademico è un contesto che genera molta ansia da prestazione e quindi molta insicurezza. Le donne, mediamente più autocritiche, la pagano più cara sia in termini di benessere lavorativo che, conseguentemente, di carriera.
Nella mia attuale attività con le aziende, invece, trovo uno schema di pregiudizio più evidente, che già c’era durante il corso di laurea. Nonostante a fisica ci fosse una buona quota di donne, da parte di molti professori maschi era percepibile un giudizio iniziale del tipo “ragazza non brutta vestita da ragazza = non saprà niente” nel momento in cui ti avvicinavi per un esame o anche solo per porre delle domande. Devo ammettere, però, che spesso bastavano poche parole competenti a far abbandonare questo presupposto ed a quel punto spesso si cadeva nell’estremo opposto, nel senso che alcuni erano evidentemente contenti di poter legittimamente dare un bel voto a una ragazza.
Lo stesso capita ora, andando a discutere di innovazione nelle aziende: sapendo di dover affrontare tematiche tecniche, quando arrivo io pensano sempre che sia la segretaria di un qualche ingegnere e c’è un chiaro scetticismo iniziale nello scoprire che l’interlocutore sono io. Se sono con un collega maschio, molti – anche donne – si rivolgono aprioristicamente a lui. Questo, per fortuna, tende a cambiare quando si comincia ad entrare nel merito.
Dobbiamo ancora farci largo a suon di competenza, non abbiamo altre armi. La cosa buona è che adesso quella basta, mentre cinquant’anni fa probabilmente una donna nella mia posizione non sarebbe nemmeno stata ascoltata abbastanza da accorgersi che aveva qualcosa di sensato da dire.
Dentro la mia stessa azienda noto invece un ulteriore aspetto, ovvero come spesso l’operato stabilizzante delle donne all’interno delle strutture tenda a passare in sordina, non visto. Per quanto i colleghi maschi ti stimino, sono più portati a prestarsi attenzione tra loro senza accorgersi di quello che tu silenziosamente fai per tenere in asse la nave. Altre amiche in situazioni simili osservano lo stesso: siamo poco abituate a pretendere di essere riconosciute, facciamo quel che serve, quando serve e perché serve, senza stare a farlo notare. Forse dovremmo chiedere più visibilità... o forse dovremmo introdurre ovunque delle logiche più femminili, in cui si presta attenzione anche al lavoro di chi fa bene senza rumore.

A suo parere, l’Italia sta facendo abbastanza per orientare le giovani donne a studi STEM? Cosa bisognerebbe fare per migliorare le cose?

Se si stia facendo abbastanza non lo so, perché non ho visione di tutto quello che si sta facendo, però posso provare a dirvi cosa osservo.
Dalla breve esperienza che ho avuto come insegnante, penso che il lavoro sulla scuola sia cruciale, soprattutto tra le elementari e il primo anno delle superiori. A quel livello vorrei veder combattuta l’idea che le STEM siano le “materie difficili”, perché questo intimorisce particolarmente le ragazze, più portate dei maschi a non sentirsi all’altezza. Inoltre, sdogana l’idea che non studiarle e quindi non capirle sia legittimo, perché “tanto sono solo per i geni”: dovremmo passare invece l’idea che una ragazza sveglia se la cava in matematica quanto in lettere.
Con la stessa logica, credo che sia sacrosanto lo sforzo che molte organizzazioni stanno facendo nel proporre role models alle giovani, ma che si debba evitare il rischio di portare solo modelli sopra le righe o che appaiono tali: passare l’impressione che le donne STEM siano tutte degli extraterrestri finisce con lo schiacciare piuttosto che aiutare le nuove generazioni. Il grande personaggio da eguagliare acchiappa più i maschi che noi, a mio parere. Penso dovremmo mostrare che le donne STEM sono donne normali, non geni. Chiunque abbia un buon cervello può capirci di matematica e trovare un lavoro tecnico divertente, non c’è bisogno di essere tutte Maria Gaetana Agnesi.

Quale consiglio si sente di dare alle ragazze che amano le materie STEM e vorrebbero intraprendere questa strada?

Andate tranquille, ci vuole solo la pazienza di imparare il linguaggio ed il gusto di risolvere rompicapi, e la vostra testa è buona per farlo come quella di chiunque altro. Soprattutto non fatevi spaventare se i colleghi maschi sembrano geniali, mentre voi vi sentite mancanti: hanno debolezze e forze come voi, si fanno solo meno remore. Pensate, imparate, fate le cose per bene secondo i vostri standard - che sono mediamente più alti di quelli degli uomini - e lasciate che la vostra bravura tappi la bocca a chi ha pregiudizi su di voi... e se qualcuno un giorno si lamenterà del rumore dei vostri tacchi nel corridoio, rispondetegli come diceva un mio collega: “Non dovrebbero disturbarti, dovresti essere contento di sentire che passa una donna”.