Ilenia Rossetti

Professoressa Associata di Impianti Chimici, Dipartimento di Chimica dell’Università degli Studi di Milano.

Professoressa ci può raccontare di cosa si occupa e in cosa consiste il suo lavoro?

Durante il mio percorso di laurea ho scelto una tesi nell’ambito della catalisi eterogenea, che prevede lo studio di materiali in grado di accelerare reazioni chimiche altrimenti troppo lente per essere di interesse pratico. Cammin facendo mi sono accorta che gli aspetti per me più interessanti erano legati allo sviluppo del processo catalitico: a partire dalle proprietà e prestazioni del materiale, il mio obiettivo era progettare il reattore più appropriato e tutti gli elementi a contorno nell’impianto, per approdare alla verifica della fattibilità economica. Per rafforzare le mie competenze in quest’ambito ho proseguito gli studi con una seconda laurea in Ing. Chimica.
Le applicazioni che più mi interessano sono i processi catalitici per la conversione dell’energia, con particolare attenzione alle fonti rinnovabili, ed i processi che utilizzino nuove materie prime, soprattutto rifiuti e scarti, nell’ottica che si definisce “economia circolare”.
Il mio lavoro consiste sia nell’insegnamento, che è un’esperienza fantastica perché consente di trasferire la propria esperienza ai giovani per vederla rifiorire in nuove idee e forme, sia nella ricerca. Ormai purtroppo non passo più le mie giornate in laboratorio, ma coordino vari progetti di ricerca sulle tematiche di mio interesse. Una buona parte del tempo è impiegata nella ricerca di risorse e finanziamenti (ahimè spesso infruttuosa) e nella collaborazione con imprese. Quest’ultimo aspetto è molto stimolante perché pone nuove sfide pratiche ed offre un’altra forma di ritorno del mio lavoro “accademico” alla società.

Laurea in Chimica Industriale, PhD in Chimica Industriale, laurea magistrale in Ingegneria Chimica, abilitazione a ordinario nel settore Impianti Chimici, cosa l’ha portata a scegliere questo corso di studi? E’ sempre stata portata per le materie STEM?

La scelta di un corso di tipo scientifico-tecnologico era nell’aria da quando ero ragazzina. Provengo da una famiglia in cui sono stata la prima diplomata e laureata, quindi non c’erano orme da seguire e la scelta su quale corso è stata abbastanza articolata. A dire il vero al liceo (scientifico) sembravo molto più portata per le materie umanistiche, in matematica i primi anni galleggiavo appena sopra la sufficienza, trovando abbastanza noioso lo studio di teoremi e dimostrazioni, fino ad incontrare l’analisi e lo studio di funzioni, che invece mi sembravano estremamente logici e finalizzati e i risultati sono nettamente migliorati.
Fisica e biologia mi piacevano molto di più perché coglievo meglio il nesso con la realtà, ma in realtà non ero ancora stata veramente colpita da nulla di veramente totalizzante ed appassionante. Tanto che al quarto anno, iniziando lo screening delle opzioni per il dopo-diploma, stavo vagamente valutando anche le opzioni di lettere moderne, storia o psicologia. Ma è stato proprio al 4° anno che c’è stata la folgorazione: abbiamo iniziato a studiare chimica, che mi aveva via via affascinata, pure nella versione estremamente edulcorata e scarsamente applicativa che ci è stata presentata in quella sede. Era tutto molto logico e consequenziale, i principi erano cristallini e mi ero accorta che per qualche motivo ci riuscivo meglio degli altri. Ricordo un compito in classe sulle ossidoriduzioni in cui anche i migliori della classe avevano risicato una sufficienza, mentre io mi ero guadagnata un bel 8. Quindi mi sono detta: “Forse è la mia strada, se mi viene naturale del talento per questa materia che i più considerano così ostica”.
Allora ho iniziato ad approfondire, non c’era internet, era il 1993 e si prendevano informazioni su libricini cartacei. In quello che avevo reperito erano descritte sia chimica che chimica industriale. Quest’ultima l’avevo scartata a priori perché quell’aggettivo, tant’è, non mi ispirava nulla di interessante: a torto! Un giorno, in un programma pomeridiano di Rai3 che orientava alla scelta dei corsi di laurea, per puro caso o destino, sentii proprio la presentazione di Chimica e Chimica Industriale e, sorpresa, mi accorsi che le finalità del corso di Chimica Industriale erano molto più nelle mie corde rispetto a Chimica. Ripresi quindi in mano il libricino e lessi tutta la seconda parte di industriale, inclusi tutti i programmi degli insegnamenti, che ovviamente mi dicevano poco o niente, ma profumavano di quell’interesse per l’applicazione che era di mio gradimento. Al che mia mamma, un po’ preoccupata per queste mie giravolte a pochi giorni dall’apertura delle iscrizioni all’università, tramite conoscenti di conoscenti riuscì a scovare un professore che insegnava a chimica pura e che mi ha fissato un appuntamento di lì a qualche giorno per chiarirmi definitivamente le idee.
Io mi presentai all’appuntamento sciorinando i miei dubbi concettuali, ma mi arrivò una sintetica risposta pratica: “Signorina, lei è una donna, e in quanto tale vorrà farsi una famiglia e avere figli. Faccia chimica pura, così potrà lavorare in un laboratorio e sarà più facile accedere al part-time o svolgere un impiego meno impegnativo.”. Il giorno dopo si aprivano le iscrizioni e finalmente (e felicemente) mi iscrissi a chimica industriale…
Per dovere di cronaca ed informazione all’ormai ex-collega, un figlio l’ho avuto, lo sto crescendo, come la maggioranza delle mie colleghe ed ex- studentesse che lavorano anche nel privato (alcune anche molto più prolifiche di me!). La scelta tra carriera e lavoro non deve esistere e se una donna ha risorse per laurearsi in ambiti oggettivamente complessi, di sicuro le ha anche per organizzare e gestire un ménage famigliare adeguato…
Arrivata alla tesi, il professore con cui lavoravo mi ha proposto di valutare l’opzione del dottorato di ricerca. Ci ho pensato un attimo per fissarmi tempi ed obiettivi, conscia del fatto che per uscire in azienda non puoi essere troppo vecchia per i ben noti stereotipi sul “rischio” maternità. Mi sono però detta che se fossi uscita dall’università a 28 anni con un dottorato, tutto sommato avrei avuto la stessa età di molti miei compagni fuori corso ma con un titolo in più, quindi ho accettato. Il resto è stato un percorso fantastico rincorrendo la curiosità della scoperta.
Il secondo percorso a Ingegneria Chimica è iniziato nel 2004. Come detto mi interessavano sempre più gli aspetti legati al processo, quindi ho pensato di consolidare la mia preparazione a livello ingegneristico. Questa fase è stata da un lato complessa e stancante perché dovevo gestire un lavoro sempre più impegnativo (nel frattempo avevo stabilito un’attività di ricerca indipendente), dall’altro estremamente piacevole, perché studiare era in realtà un bellissimo hobby. Non avevo scadenze di tempo o vincoli di preparazione: studiavo per piacere ed interesse della materia e potevo prendermi il tempo che ritenevo più adeguato per approfondire quanto mi interessava. Ho sospeso gli studi a tre esami dalla seconda laurea per la mia maternità, perché oggettivamente era diventato un impegno troppo gravoso in quel periodo. Ho ripreso gli studi qualche anno dopo per finire il percorso di laurea, più che altro per dimostrare a mio figlio, che aveva 4 anni, che non si lasciano le cose a metà.

Secondo lei ci sono ancora barriere nei confronti delle donne che vogliono entrare o avanzare nelle carriere scientifiche? Nel suo percorso lavorativo, ha mai incontrato difficoltà?

Gli stereotipi sono un po’ meno pressanti di qualche anno fa, per quanto posso desumere dalle posizioni lavorative delle nostre laureate, ma non sono del tutto scomparsi. In realtà credo che siano più in generale stereotipi della nostra società, che si manifestano nei diversi aspetti della vita di una donna.
Ripensando a episodi del passato, oltre al colloquio già menzionato con il professore “disorientante”, forse ho percepito solo un paio di casi di reale discriminazione di genere. Il primo, quando avevo appena finito il dottorato. Come detto mi ero fissata degli obiettivi e limiti temporali e non cogliendo in quel momento uno sviluppo a breve per la mia carriera in università, avevo iniziato ad inviare vari curriculum. Un colloquio sembrava andato in porto. Società di terzisti produttori di farmaci per grosse aziende cercava varie posizioni, tra cui un esperto di technology transfer, uno in produzione e uno in laboratorio controllo qualità. Di queste mi ero infatuata della prima, che consisteva nell’adattare i processi produttivi aziendali alle ricette dei clienti. In qualche modo quel design di processo che tanto mi affascinava. Un test di logica ed attitudinale (6 ore, con prove ripetute per valutare la coerenza) più un lungo colloquio con una società di selezione, al termine del quale mi è stato riferito che sarei stata presentata all’azienda come la più adatta per il posto di technology transfer, praticamente cosa fatta, e che avrei parlato con il mio futuro capo di lì a qualche giorno. Capo che da quanto mi avevano detto avrei dovuto affiancare per un paio di anni fino alla pensione, per poi prendere il suo posto. Incontrai questo anziano signore, gentile, ma con l’aria di quello che sta perdendo tempo. Dopo un po’ mi ha detto “Senta, per lei questo mestiere non va bene, è poco stimolante. Tra pochi anni rimpiangerà la sua ricerca…”. Ci stavo quasi credendo quando ha chiosato “… sicuramente, visto che per la società di selezione è elemento molto valido, la posso trasferire alla posizione controllo qualità!”. Ecco, nella mia personale percezione, magari falsata, il controllo qualità sta allo stimolo della ricerca come il ritirarsi in monastero in meditazione perpetua sta al carnevale di Rio! Ecco quindi che mi si riproponeva il mantra del laboratorio come più adatto ad una donna sicuramente in vena di futura maternità. Di loro non seppi più nulla dopo il mio gentile diniego del ripiego ed il loro “Allora le faremo sapere…”. C’è da dire che i due protagonisti della mia mancata vocazione laboratoriale erano due anziani signori vicini alla pensione, spero sostituiti da giovani di più ampie vedute…
Un altro caso, un po’ più in là con gli anni. Ricercatrice ormai da tempo, davo una mano anche nell’organizzazione delle iniziative di orientamento dell’Università. In occasione di un Career Day, in seguito ad un ritardo di una precedente presentazione, la platea che doveva assistere ad una delle nostre iniziative era molto scarna e ciò ha scatenato le ire di uno dei presentatori. Scusandomi del ritardo mi ha risposto astioso: “Voglio parlare con il responsabile dell’iniziativa”. Al mio dirgli che doveva parlare con me, mi sono sentita apostrofare con: “Voglio parlare con un responsabile, non con la segretaria…”.
Altre situazioni sono state di poco conto o addirittura divertenti. Ad esempio il direttore generale di un’azienda, presentatomi dal mio compagno perché interessato ad approfondire il possibile impiego di celle a combustibile, era un ingegnere meccanico noto per frasi progressiste del tipo “Non so come una donna possa studiare ingegneria… e per di più laurearsi!”. Me lo ha detto quasi subito il nostro primo incontro, pur gentilmente ed omettendo per cortesia la seconda parte della frase. Gli ho organizzato un incontro con un’azienda di celle con cui allora ero in contatto, il cui referente era l’Ing. XXX. Lui è sembrato subito rassicurato dal fatto di avere come controparte un ingegnere meccanico, ovviamente maschio, invece della sottoscritta, ingegnere chimico (per caso fortuito e pure femmina). Avevo omesso il particolare che l’Ing. XXX, si chiamava Ivana ed era una minuta e graziosa signora, molto competente, ma dall’aria poco austera ed ingegneresca. Credo che alla presentazione sia rimasto lì balbettando per circa 10 minuti concludendo apertamente con un “Ma mi aveva detto Ing. XXX”, ho risposto “Sì, naturalmente, Ing. Ivana XXX”…
Oppure ricordi tutto sommato teneri. Il professore con cui lavoravo mi presentava a tutti come Ilenia e non ci ho mai fatto caso, finché, già ricercatrice ed in presenza di un nostro dottorando, non ha presentato me come Ilenia e lui come Dr. YYY. Al momento l’ho sentita come una nota stonata. Più tardi mi sono resa conto che io continuo a presentarmi come Ilenia (o con il cognome, a seconda del contesto, ma senza titoli), mentre il collega ci tiene a farsi chiamare Dr./Prof. YYY e si presenta così. Quindi forse aveva intuitivamente adattato il modo di presentarci alle nostre personalità.

A suo parere, cosa si potrebbe fare per incoraggiare ed esortare le giovani donne ad intraprendere studi STEM?

Credo che in generale le donne devano ricominciare a fare comunità, a fare rete, a confrontarsi e a supportarsi. Sentire l’esperienza di colleghe che hanno intrapreso studi o carriere STEM è sicuramente di aiuto per interpretare la propria vocazione e cercare il percorso più adatto. E durante il percorso per cercare aiuto in caso di difficoltà. Se c’è un interesse per una materia di ambito scientifico o tecnologico va valorizzato un qualsiasi modo. È necessario potenziare questi ambiti e solo con più professioniste in ruoli chiave si possono abbattere veramente gli stereotipi.

Quale consiglio si sente di dare alle ragazze che amano le materie STEM e vorrebbero intraprendere questa strada?

Di lanciarsi con serenità in questa entusiasmante avventura, impegnativa ma gratificante.
Di non autoingabbiarsi negli stereotipi di genere, che come scritto sopra possono generare momenti più o meno spiacevoli, ma non distraggono dall’obiettivo e risultato finale.
Di essere più assertive e convincenti. Ho fatto esperienza come valutatrice di progetti e per alcuni anni sono stata coinvolta in un panel di valutazione in Norvegia. Alla prima edizione mi hanno dato un manuale operativo che spiegava i criteri di valutazione ed una sezione intera (una quindicina di pagine con esempi) era dedicata alle questioni di genere. L’ho letta un po’ scettica, ma mi ha insegnato moltissimo. Semplificando all’osso, ho imparato che tutti noi abbiamo un bias cognitivo che porta anche giurie di donne a selezionare uomini (a pari qualifiche) perché più aggressivi ed autoreferenziali nel proporsi. Risultano quindi in ultima analisi più convincenti. Da quel momento ci ho fatto caso. Nella maggior parte delle commissioni di concorso di cui sono stata membro, donne anche molto qualificate di rado usano toni perentori per asserire la validità dei propri risultati (spesso usano “sembra”, “pare”, “probabilmente”) o aggettivi superlativi per descrivere il proprio lavoro, al contrario di molti uomini. Soprattutto, ho notato che le donne parlano sempre al plurale “noi”, “io ed il mio gruppo/collaboratori”, ecc. Mentre gli uomini parlano prevalentemente al singolare “io ho fatto/scoperto/realizzato/inventato”, al più “il gruppo da me diretto”.
In piccolo lo si vede anche durante gli esami, come atteggiamento a volte più spavaldo nello sparare spudoratamente a caso risposte che non si conoscono da parte di alcuni studenti maschi a fronte di dimesso o aperto panico di alcune colleghe femmine.
Di questo diverso modo di porsi, che poi significa in parte anche un diverso modo di porsi sul lavoro, con collaboratori, colleghi, ecc., bisognerebbe tener conto nella valutazione, ma spesso non ci si accorge di questo aspetto. Nell’attesa quindi che anche più a sud in Europa si divulghino manuali per l’accorto valutatore, il consiglio è di essere più sicure nell’esternare quello che si sa e che si vuole.