Joelle Gallesi

Managing Director Hunters Group

Giovane mamma, appassionata di triathlon, schierata per la parità di genere nelle imprese

Gentile Joelle, si è laureata in Economia e Commercio alla Bocconi, con indirizzo Strategia delle PMI. Com’è giunta a questa scelta?

Mio padre era ingegnere e mia madre imprenditrice di un’azienda nel campo tessile. Io ho frequentato il Liceo Classico, ma il mio obiettivo era frequentare la facoltà di Economia con l’ottica di entrare nell’azienda di famiglia. Mia madre era laureata in lingue e io, più studiavo Economia e più notavo quanto quelle competenze avrebbero aiutato l’azienda.

Purtroppo mia madre è mancata abbastanza giovane e io non ho più continuato sulla quella strada.
Come si può evincere dal mio percorso, io non ho un profilo STEM per background scolastico o familiare, ma per passione. La mia prima esperienza lavorativa è stata infatti in ambito Consulting nel team Engineering – coordinando gruppi di figure con background tecnico - e anche successivamente ho sempre lavorato in ambito tecnico.

Il nostro focus deve essere sempre legato all’obiettivo che vogliamo perseguire ed io stessa ho dovuto “forzare” le mie competenze STEM per raggiungere il mio obiettivo personale. Le passioni si possono coltivare, per esempio io ho frequentato successivamente la Facoltà di Giurisprudenza dando quasi tutti gli esami, ma l’ho scelta per pura passione personale.

La scuola le aveva fornito un orientamento in questo senso?

Avevo già deciso, i miei genitori mi hanno dato la possibilità di entrare in un’università privata. Ne ho analizzate due e ho scelto la Bocconi senza grandi dubbi.

Ha sviluppato la sua carriera professionale in ambito prima commerciale e poi nella direzione generale di impresa. Da tre anni è Managing Director di Hunters Group, società che impiega 120 dipendenti e si occupa di head hunting e ricerca e selezione del personale. Ci può descrivere il suo percorso professionale e di cosa si occupa?

Ho un percorso che, fin dall’inizio, nasce dalla consulenza. Sono entrata prima in Assolombarda Monza, nell’area economico-finanziaria, poi in Michael Page, società di head hunting, crescendo professionalmente fino ad arrivare al board dell’azienda. Gestivo l’area tecnico-engineering, che era quella che mi piaceva di più, perché la trovavo più sfidante e vedevo in quel tipo di business una sostenibilità e un potenziale incredibile.

Era l’area più piccola: eravamo solo in quattro all’inizio, ma siamo cresciuti tanto da arrivare a coprire tutto il territorio nazionale, con 50 risorse, delle quali io ne gestivo 27/28. Vedevo nell’area tecnica delle potenzialità multi-business: nel campo IT, Supply Chain, Real Estate, ecc. Quando ci fu la crisi del 2008 implosero tutte le aree, mentre la mia fu quella dove licenziammo meno persone; il mio team era composto da ingegneri meccanici, civili, gestionali, ambientali e solo un paio di economisti.

Dopo l’esperienza in Michael Page ho lavorato per tre anni nel campo delle Energie Rinnovabili, ricoprendo il ruolo di Direttore Commerciale per una società che vendeva grossi impianti. In seguito sono entrata in una Telco, come Direttore di un distretto commerciale.

Infine, sono entrata in Hunters Group sei anni fa. Conoscevo già il titolare perché era stato uno dei miei responsabili in Michael Page. Ho assunto il ruolo di Managing Director tre anni fa ed è stato il frutto delle esperienze che ho maturato negli anni e che mi permettono oggi di seguire tutte le aree al meglio: finanziaria, commerciale, marketing e innovazione, HR.

Progetti per il futuro?

Portare Hunters Group, la quale oggi ha quattro sedi distribuite sul territorio nazionale (Milano, Padova, Bologna, Roma), a crescere. Arriveremo a sei, con l’apertura di Torino e Bari nelle prossime settimane.

Il prossimo step sarà l’internazionalizzazione, con l’apertura di una sede all’estero. L’obiettivo è di esportare il modello italiano dell’head hunting. Nel nostro settore ciò difficilmente avviene, anzi succede l’opposto: sono le multinazionali ad aprire sedi in Italia.

Il nostro sarebbe il primo caso su ampia scala, tenendo conto che entro fine anno saremo almeno 150. Stiamo crescendo molto, il management team ha costruito il previsionale dell’anno e finora l’abbiamo superato ogni mese del 15%.

Nel suo percorso di studi o nella sua carriera, ha incontrato difficoltà in quanto donna?
Ricorda un episodio?

Durante il mio percorso di carriera non ho mai avuto difficoltà degne di nota, ma ci sono stati due episodi abbastanza eclatanti.

Il primo fu all’inizio, durante un colloquio in un’azienda di macchine utensili. L’episodio è legato al mio nome, poiché può essere letto sia al maschile che al femminile. Quando mi presentai, mi dissero che pensavano fossi un uomo e, dopo aver realizzato che così non era, non mi hanno neppure voluto fare il colloquio, nonostante avessi sempre gestito team per l’80% composti da uomini e in ambito tecnico.

Il secondo episodio fu molto più grave. In una multinazionale, quando rientrai dalla maternità, mi proposero tre ruoli uno di livello più basso dell’altro, addirittura quello di una persona del team che coordinavo prima della maternità. Ciò accadde anche se rinunciai alla maternità facoltativa, pagata al 100%, per ritornare operativa il prima possibile. A quel punto non era più possibile emotivamente restare in quell’azienda, quindi ho preferito lasciare.

Successivamente, invece, è successo un episodio molto bello, che non ho mai raccontato ma che è stato un momento molto significativo. Era il 2016 e mi trovavo al sesto mese di gravidanza, quando l’attuale titolare di Hunters Group ha deciso di assumermi. Mi diceva “preferisco te perché ti conosco e so che sei competente, a prescindere dalla maternità prossima”. In un momento in cui ancora i temi della maternità e della carriera non erano così al centro dell'attenzione e della sensibilità delle aziende, lui scelse di guardare oltre la mia gravidanza e di valorizzare la mia esperienza. Oggi queste tematiche sono sulla bocca di tutti, ma spesso purtroppo per tante aziende e manager si tratta anche di “washing”, più che di una reale volontà di valorizzare le competenze femminili.

Tra quote rosa e certificazione della parità di genere, la strada per incorporare la gender equality nel DNA delle imprese è ancora lunga. Lei è molto impegnata su questo tema, ci può raccontare la sua opinione e le proposte che sta portando avanti?

Non credo né alle quote rosa, né al genere, prioritaria è la competenza.
Se l’azienda si focalizza sulla competenza, che sia soft o che sia hard, è in grado di prescindere dal vestito che ha attorno quella stessa competenza – e per “vestito” intendo il genere, la provenienza, la diversità o qualsiasi altra connotazione - riuscendo così a portare a casa risultati reali.

Io ho sempre creduto nei team inclusivi. Un episodio emblematico in questo senso è capitato proprio qualche giorno fa nel team HR, perché non ho problemi a decidere di assumere un uomo in un team di uomini, uno straniero in un team di stranieri, perché se sono le persone più competenti, è questo elemento a prevalere su tutti gli altri.
Io ho assunto nelle aree Finance e Banking delle donne, anche se so che devono combattere più dei loro colleghi uomini in quel settore, ma loro sono armate proprio della loro competenza. Bastano 3 minuti nel momento in cui parli con una persona per notare il delta nella preparazione in uno specifico ambito.

Ad esempio, all’interno di Hunters Group, abbiamo una persona ipovedente che si occupa di ricerca e selezione esattamente come tutti gli altri consulenti, anche perché ha una competenza specifica nel segmento delle categorie protette ed è quello che conta, in quanto sa come porsi con questi candidati. Per me è una risorsa insostituibile, non potrei scegliere un uomo o una donna a prescindere. Le categorie protette, invece, troppo spesso sono relegate a ruoli di segreteria o back office.

Le aziende devono tenere conto delle caratteristiche delle persone. Ad esempio se le donne sono giovani bisogna considerare che probabilmente, ad un certo punto della loro carriera, possono diventare madri e, quindi, è compito dell’azienda costruire attorno a loro un back up: è solo una questione di organizzazione. Non è semplice, ma si può fare.

Così come bisogna anche stimolare i padri ad essere più presenti, ripensando ad una gestione aziendale della genitorialità: noi abbiamo piani strutturati sia di maternity che di paternity welfare, affinché anche i compiti a casa possano essere equamente distribuiti tra i due genitori. Inoltre, quando le risorse rientrano dalla maternità o dalla paternità portano valore aggiunto all’azienda, perché le soft skill che maturano in quelle prime settimane da genitori sono enormi: più hanno occhiaie, più hanno skill!

È molto giovane, appena quarantenne, con due bimbi di 6 e 7 anni, e con la passione per sport impegnativi come snowboard e nautica in primis, ma anche il triathlon. Ci dica il suo segreto, come riesce a trovare tempo per tutto?

Prima di tutto, non sono sola: il segreto di ogni donna che riesce ad avanzare nella carriera è poter dividere tutti i compiti a metà con il proprio compagno, naturalmente a parte i primissimi mesi dalla nascita. Io personalmente cerco di conciliare le diverse attività. Quando mi dedico alla corsa nel weekend, nel frattempo penso alle strategie aziendali, ad un discorso da tenere, ad un’intervista, faccio dello sport parte integrante della mia vita. Inoltre le occasioni sportive creano anche relazioni che portano valore all’azienda. A volte faccio sport con i clienti, traducendo in divertimento il business.

Sono ore che mi fanno stare bene mentalmente, le ore dedicate al lavoro non possono essere troppe, io non stimo chi lavora sempre fino alle 8 di sera, per me non va bene, bisogna lavorare il giusto, ma ben concentrati, come ci insegna lo sport. Non tantissime ore ma fatte molto bene, con cura.

Quindi programmazione e organizzazione in tutto, dando spazio anche alla propria vita privata, ai propri interessi. Così riesco a passare, per esempio, due volte a settimana a prendere i miei bambini alle 18 e andiamo a suonare insieme, a me piace suonare la batteria e ai miei figli la chitarra, poi c’è il papà che suona il basso. Pratichiamo anche sport insieme, ci divertiamo.

Come sa STEAMiamoci nasce per supportare le ragazze nei percorsi STEM, ha qualche consiglio che può dare alle ragazze che amano queste materie e vorrebbero intraprendere questa strada ma hanno ancora incertezze e timori?

Credo che i limiti che ci impediscono di raggiungere un obiettivo siano solo piscologici. Quando ti viene riconosciuta una capacità, una competenza si crea automaticamente spazio intorno. Bisogna essere molto determinate ed anche disponibili a sviluppare competenze in campi che magari non sempre sono la nostra passione, ma ci aiutano a raggiungere proprio quell’obiettivo che ci siamo prefissate.

Io sono una persona che crede fermamente che la passione sia importante, ma bisogna avere un obiettivo, quella passione deve essere concretamente applicabile nel mondo del lavoro. Se la mia passione è la batteria, la suono, ma non penso di poter diventare una batterista professionista, quindi la suono nel tempo libero. Cerchiamo di focalizzarci sulle questioni che poi ci permettono di poter avere una vita più divertente dopo il tempo del lavoro. Insistiamo, anche se matematica e statistica sono materie complicate, un po’ più lontane da noi, teniamo duro e miriamo l’obiettivo.

C’è ancora un tasso di abbandono molto alto nelle materie STEM da parte delle donne, se riusciamo a tenere duro oggi è fondamentale, perché significa che avremo team manageriali più forti in futuro. Oggi ci sono tante aziende disposte a far fare carriera alle donne. Questo è il momento delle donne.

Come azienda abbiamo conseguito internamente la certificazione Gender Equality secondo UNI/PdR 125:2022 Sistema di Gestione per la parità di genere e, contestualmente, abbiamo ottenuto anche l'attestazione - unica in Italia - per un processo di selezione in linea con la ISO sulla Diversity & Inclusion. Si tratta di un processo di recruiting che permette di valutare una risorsa focalizzando l’attenzione prettamente su aspetti legati al ruolo e al contesto aziendale, escludendo a priori eventuali bias cognitivi che possano influenzare l’intero iter nel processo di selezione del personale.

Alle aziende che non hanno un DNA di gender equality, ma ci vorrebbero lavorare, il nostro consiglio è di fare programmi di medio-lungo termine in quest’ottica. Oggi anche questi temi rientrano nella strategia aziendale, non deve essere semplice “diversity washing”. Nelle aziende medio-grandi possono essere necessari 2 o 3 anni per raggiungere quest’obiettivo, per questo noi, in qualità di società di ricerca e selezione, aiutiamo le aziende in questo processo in ingresso, ma poi è importante far raggiungere anche alle donne meritevoli posizioni manageriali, è inutile assumere 50 donne se poi non hanno un piano di crescita.

Quindi bisogna allocare un budget per cambiare il DNA aziendale, perché un ritorno in termini di investimento sulle donne c’è ed è provato: secondo McKinsey con almeno il 30% di donne nei board, l’azienda ha una crescita nell’utile dall’8% al 13%.

La legge serve per creare cultura, perché sia le donne che gli uomini devono cambiare, anche nel quotidiano: se l’uomo a casa non contribuisce, il problema alla base rimane. Oggi generalmente il bimbo è allattato anche con il biberon, quindi può farlo anche il padre. C’è il grande problema degli asili che costano troppo e alla fine le donne rinunciano anche per questa ragione. Le donne devono essere aiutate, c’è tutta una cultura e un sistema che devono cambiare, per facilitare realmente l’ingresso nel mondo del lavoro e la crescita delle donne.