Michela Balconi

Docente di “Neuropsicologia e Neuroscienze Cognitive”, “Neuropsicologia della Comunicazione”, e “Neuroscienze e Benessere nel Lifespan” per la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Brescia. È a capo della Research Unit in Affective and Social Neuroscience. Coordina inoltre le attività di ricerca del Laboratorio di Psicologia Cognitiva e di un ampio gruppo di collaboratori (www.psychoneuronet.com).

 

 

Prof.ssa l’abbiamo seguita alla Maratona di Focus Live, dove ha raccontato come studia la possibilità di poter leggere nel pensiero. Ci può raccontare in poche parole in cosa consiste il suo lavoro? Quali progetti ha per il futuro, se ha un sogno nel cassetto.

La mia attività professionale consiste nella progettazione di paradigmi di ricerca e nell’applicazione di metodiche e approcci neuroscientifici per lo studio di diversi ambiti e processi che appartengono alle “neuroscienze sociali o delle emozioni” e interessano la nostra vita quotidiana, come la capacità di regolare le emozioni, di interagire con gli altri oppure di programmare differenti attività quotidiane che richiedono l’utilizzo di competenze e facoltà di tipo cognitivo.
In questo senso, l’utilizzo di un approccio neuroscientifico ci consente di osservare e studiare l’importanza del nostro cervello e del sistema nervoso centrale nella regolazione di alcuni di questi comportamenti.
A questo proposito, è da poco nato l’International Research Center for Cognitive Applied Neuroscience (IrcCAN), un centro di ricerca internazionale che affonda le sue radici in un percorso e in un gruppo di lavoro che da più di dieci anni sta approfondendo lo studio di queste tematiche per fornire delle nuove prospettive sul rapporto tra il mondo neuroscientifico, l’utilizzo di differenti strumenti di ricerca e le loro possibili applicazioni in contesti reali. Ci occupiamo, ad esempio, di indagare come sia possibile potenziare alcune nostre facoltà mentali utilizzando specifiche tecniche e device neuroscientifici per permettere di affrontare nel modo migliore le sfide del decadimento cognitivo legato all’età anziana. Un’altra area di indagine è relativa all’analisi delle interazioni e delle relazioni che caratterizzano l’ambito professionale, come quella tra capo e collaboratore, al fine di comprendere i meccanismi sottostanti situazioni di cooperazione e conflitto o implicati nella gestione di dinamiche di negoziazione. Considerate le differenti prospettive future offerte dalla nascita di questo nuovo centro di ricerca, non ho un particolare sogno nel cassetto, ma piuttosto la volontà di portare avanti questo progetto che ormai mi vede impegnata da molti anni e che si è concretizzato fattivamente all’interno di questo nuovo centro di ricerca.

In campo scientifico esiste ancora discriminazione nei confronti delle donne? Nel suo percorso lavorativo, ha mai incontrato difficoltà?

Rispetto al tema della possibile discriminazione delle donne nei contesti professionali e di una mia possibile esperienza diretta, devo dire che, negli ultimi anni, l’apporto delle donne rispetto a ruoli e cariche di un certo rilievo o prestigio è diventato molto più consistente. Nel dire questo faccio riferimento anche al contesto professionale della ricerca universitaria, che mi caratterizza più direttamente. Osservando l’apporto crescente delle donne nei contesti professionali, anche alla luce di una serie di collaborazioni che ho con il mondo professionale, posso dire che quest’evoluzione del ruolo femminile si è guadagnata uno spazio notevole, soprattutto in termini comparativi, rispetto a qualche anno fa, anche se c’è ancora molta strada da fare soprattutto per alcuni ruoli apicali. Quindi direi che questo tipo di sfida è ancora aperta. Nonostante siano stati fatti dei grossi passi avanti, l’obiettivo per i prossimi anni sarà quello di guadagnarsi ulteriori spazi confermando non solo le grandi potenzialità del genere femminile nei diversi contesti professionali, ma dimostrando sempre di più come una caratteristica del genere femminile sia proprio quella di poter aspirare a delle posizioni lavorative dove capacità come quelle di gestione delle relazioni, di negoziazione, di pianificazione e programmazione, siano in grado di renderne il loro possibile contributo come veramente molto rilevante.​

A suo parere, l’Italia sta facendo abbastanza per orientare le giovani donne agli studi scientifici? Cosa bisognerebbe fare per migliorare le cose?

Rispetto al ruolo che l’Italia svolge in relazione all’orientamento delle giovani donne nell’ambito della ricerca scientifica penso che prevalga ancora una certa cultura che vede il contributo e il ruolo potenziale delle donne in funzioni, posizioni e ruoli che, per definizione, riguardano profili più legati alla gestione delle risorse umane. Riguardo alle possibilità offerte al genere femminile di svolgere professioni che si riferiscono più direttamente all’ambito della ricerca scientifica permangono forse ancora dei tabù. Nell’ambito neuroscientifico posso dire che questi tabù sono stati, in parte, superati come dimostrato dal fatto che molti importanti nomi di ricercatrici in ambito neuroscientifico sono sicuramente ben noti a un grande pubblico. Questo può essere considerato come il risultato di una conquista e di un investimento che le giovani generazioni hanno fatto e che rende oggi più semplice per una giovane ricercatrice affermarsi nei diversi ambiti del sapere e della ricerca scientifica. Questo lo è stato meno per generazioni precedenti, a cui anch’io appartengo, dove sicuramente ciò ha rappresentato una sfida, in quanto abbiamo dovuto dimostrare di essere in grado di poterci confrontare anche con ambiti che culturalmente erano considerati come prettamente maschili. Credo che, anche in questo caso, le caratteristiche tipiche del genere femminile, in particolare le capacità di programmazione a lungo termine e di perseverazione, possano costituire delle armi vincenti che possono fare, in molti casi, la differenza.

Quale consiglio si sente di dare alle ragazze che amano le materie STEM e vorrebbero intraprendere questa strada?

Il consiglio che posso dare alle nuove generazioni e, in particolare, alle giovani ricercatrici che aspirano a svolgere questo tipo di professione è quello di puntare soprattutto sulle proprie caratteristiche, che considero come uno dei tratti e delle componenti specifiche del genere femminile. Come dicevo prima, proprio le capacità di perseverare nei propri obiettivi e di cogliere l’importanza del fattore umano nei diversi contesti della ricerca scientifica, valorizzando le caratteristiche e le peculiarità di ciascun individuo con cui si collabora nella gestione e realizzazione di progetti, rappresentano degli elementi veramente importanti. D’altra parte, anche le aziende e il mondo produttivo ci rivelano come le persone, le loro competenze e, soprattutto, quegli elementi distintivi che rendono ogni individuo, e quindi ogni professionista, un valore intrinseco e in sé prezioso rappresentino veramente le risorse di un’azienda. Credo che saper, in molti casi, cogliere questo valore aggiunto del portato individuale, mettendo insieme universi diversi e formando gruppi di persone che possano realizzare obiettivi ambiziosi, sia proprio una caratteristica connaturata nel genere femminile. Ritengo che questa, insieme ad altre competenze scientifiche più di base, le cosiddette “scienze della vita”, sia una delle caratteristiche principali del genere femminile. Considero ciò come elemento non così discrezionale, ma quasi come un assunto al pari del contributo che anche il genere maschile può dare, sottolineando invece le caratteristiche che, dal mio punto di vista, sono veramente salienti in ruoli e funzioni relativi a questo tipo di contesto e di orientamento della ricerca e che possono fare la differenza nel caso del genere femminile.